Con Gli Occhi della Guerra "Cibo e acqua nel deserto: vita nel Dadaab"

Emergency Live sostiene il progetto “Gli Occhi della Guerra” un’iniziativa editoriale che vuole incrementare e sviluppare il reportage d’inchiesta, anche con il crowdfunding. Gli occhi della Guerra spinge il nostro sguardo verso quegli angoli di mondo e quelle tragedie che non possiamo o non vogliamo vedere. Nei reportage de “Gli Occhi della Guerra” appaiono non solo quelli che devono difendersi o vogliono attaccare altri esseri umani, ma anche quelli che corrono e soffrono per salvare vite; professionisti e volontari che mettono a repentaglio la vita nel prestare servizi di soccorso e di emergenza.

Questa settimana abbiamo deciso di riprendere un reportage del giornalista Daniele Bellocchio, dal titolo “Cibo e acqua nel deserto: vita nel Dadaab”

Una spinta, un calcio e poi una frustata sulla schiena. Il fucile è a tracolla, la prepotenza nelle grida, il fiele negli occhi. Gli anfibi di uno dei soldati dell’esercito kenyota lasciano solchi geometrici e precisi nella sabbia, mentre compie il suo turno di guardia fuori dai cancelli dei magazzini dove avviene la distribuzione del cibo. Cammina per ore, avvolto nella tuta mimetica, avanti e indietro scrutando con occhi impassibili le migliaia di uomini che aspettano di poter accedere: nei primi dieci giorni del mese, infatti, all’interno del Dadaab avviene l’assegnazione dei generi alimentari. In tutti i cinque campi che compongono la tendopoli 300mila persone accorrono per ricevere il proprio sacchetto con all’interno la scorta di viveri per i futuri 30 giorni. È uno dei momenti in cui la folla che popola il campo si concentra in unico luogo. I militari scrutano i rifugiati somali. Gli uni: cittadini kenyoti in difesa e armati; gli altri: profughi somali, in jalabia e ciabatte. Essere cittadino nella propria terra o rifugiato in una latitudine straniera è una dicotomia drammatica che trova la sua istantanea rappresentazione nelle barriere e nell’imposizione della sofferenza come misura di sicurezza.

Sono in fila indiana i profughi: gli uomini da un lato, le donne dall’altro e attendono dalle prime ore del mattino sotto un cielo impietoso, che non offre la clemenza di una nuvola. Non è concesso lamentarsi, non è legittimo protestare: attendere, in silenzio, e obbedire. C’è chi sgrana un rosario musulmano nell’attesa, chi regge un sacchetto e una bottiglia vuota, gli uomini indossano l’amama, la kefiah somala, le donne invece hijab di ogni colore. Due file parallele, dove volti impassibili attendono, in piedi, immobili, come un esercito della disillusione: una sfilata senza gloria di anime votate al disincanto, un ritrovo degli inconsolabili. Tutti lì ad aspettare.

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