Non supereroi, non automi: il lavoro di un medico ER in prima persona

Essere medico di emergenza in una ER statunitense. Brian Drummond affida al magazine on-line The Conversation il racconto della propria esperienza lavorativa in una emergency room. Come in un flusso di coscienza, il medico evoca sentimenti, stati d’animo e riflessioni che intervallano la normale routine a contatto con i pazienti. Un racconto che sa essere cinico e delicato, personale e universale. Una narrazione nella quale molti medici sicuramente si ritroveranno.

Entro nella stanza per salutare il mio prossimo paziente senza sapere quello che troverò. Oggi, una signora anziana è scivolata in casa e la trovo legata alla spinale con indosso il collare cervicale. E’ una routine per tutti i pazienti coinvolti in incidenti stradali o cadute o qualsiasi altro trauma che potrebbe causare una lesione del midollo spinale. Quando la vedo, la sua testa è fasciata con una garza macchiata di sangue. Mentre il personale la collega al monitor cardiaco e alla macchina per tenere sotto controllo la pressione sanguigna, il paramedico relaziona la sua storia medica per chiunque lo voglia ascoltare.

La mia testa fa un esame inconscio della paziente e della sala: donna bianca, età sulla sessantina (più alto rischio di emorragia intracranica, probabilmente necessita di TAC della testa) muove le dita delle mani e dei piedi (minore rischio di lesioni del midollo spinale) e parla con l’infermiera (funzioni cognitive superiori intatte). Occhi aperti, si guarda intorno (i centri oculomotori funzionano normalmente). In pochi secondi, so che le probabilità di una devastante emorragia cerebrale o di una lesione del midollo spinale sono estremamente basse.

Formare la mia mente per riuscire a elaborare i segnali inviati dal corpo umano è frutto di anni di ripetizioni e di migliaia di pazienti. Alcuni casi sono più di routine ed è più facile fondere insieme le osservazioni, le domande e le decisioni in una diagnosi, mentre altri sono più confusi e difficili da leggere e interpretare.

Guardo il lato destro del volto della donna e noto un gonfiore significativo. Per tutto il tempo continuo a chiedere alla paziente come è caduta, dove ha perso conoscenza e le altre solite domande di rito. È interessante notare che ci sono studi che indagano in quanto tempo i medici interrompono i pazienti durante il colloquio preliminare a seconda delle differenti specialità. In media è tra i 18-23 secondi, per i medici di emergenza può essere inferiore a dieci. Non voglio essere scortese quindi lascio spesso che i pazienti parlino un po’ prima di tagliare corto. E poi mi piace ascoltare le loro storie. In queste brevi interazioni ho anche altri due importanti obiettivi: mostrare empatia e stabilire un collegamento personale.

La paziente dice che è inciampata e che, cadendo, ha picchiato la testa contro un armadio. Tuttavia, prima di telefonare per chiedere aiuto, si è preoccupata della salute del cane. Mentre ridiamo sulle sue priorità, io suturo la ferita. Il collegamento personale con i pazienti è necessario. Relazionarsi con loro con umanità aiuta moltissimo. Noi medici di emergenza conosciamo il dolore, le lotte, le sfide, la paura, la gioia e il sollievo dei nostri pazienti. Ma mentre l’investimento emotivo può essere carburante positivo per il paziente, noi siamo investiti da storie negative e preoccupanti, capaci di drenare riserve emotive interne: tossicodipendenti, senza fissa dimora, persone con disturbi mentali, e tanti anziani. Storie drammatiche e di sofferenza, che rischiano di coinvolgermi e di interferire con la mia capacità di cura per i prossimi pazienti. Per questo, una volta lasciata l’emergency room, faccio piazza pulita di tutto e sono pronto ad accogliere un nuovo paziente.

Per fortuna, oggi sono buone notizie e l’incidente avrebbe potuto essere peggiore. Nessuna frattura. Al commiato la paziente mi ringrazia per averla fatta stare tranquilla. Ma è già tempo di gettarsi in un altro rapporto. Ho 20 pazienti da curare contemporaneamente. Per il momento torno alla mia scrivania, ma tutti vogliono la mia attenzione: infermieri con domande di dosaggio del farmaco, tecnici con ECG alla revisione, studenti di medicina in attesa di presentare i loro pazienti … il tutto mentre il mio telefono squilla – una clinica vuole trasferire un paziente da me.

La pressione fa parte del gioco e mi fa amare il mio lavoro ancora di più. La combinazione di diagnostica e la capacità di dare assistenza alle persone in momenti di bisogno è una cosa speciale che da alla mia vita uno scopo più alto. Esercitare la professione medica in un ambiente che si aspetta da te il 100% di precisione può essere difficile, ma è la mia vocazione. E non potrei rinunciarvi”.

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