Aggressioni al soccorritore, a Cadeo un nuovo caso di violenza: cosa fare?

CADEO – Picchiati perché stavano per curare una persona. E’ accaduto sulla via Emilia in provincia di Piacenza. Un uomo in bicicletta, ferito dopo uno scontro con uno scooter lungo la via Emilia, stava per essere preso in carico dai soccorritori del 118 dell’Emilia Ovest, nel pomeriggio del 9 di settembre. Nello scontro fra bicicletta e motociclo, il ferito – un richiedente asilo di nazionalità nigeriana – è stato sbalzato in un fossato.

Sul posto oltre all’ambulanza è intervenuta un’automedica, ma quando è stato il momento di procedere all’immobilizzazione e alla cura del paziente, attorno ai soccorritori si era creato un capannello di persone. Un connazionale del ferito ha improvvisamente dato in escandescenze intimando ai soccorritori di allontanarsi, e senza dare tempo ai dipendenti del 118 e ai volontari di reagire, ha attaccato con un calcio un infermiere. L’uomo ferito, dipendente del 118, è stato portato immediatamente dall’ambulanza in Pronto Soccorso. Sul posto sono quindi giunti Polizia di Stato e Carabinieri per vagliare le posizioni dell’aggressore e capire come sia potuto accadere una cosa simile e capire quali provvedimenti mantenere. E’ scattata la polemica politica, al cui centro è finito sia l’aggressore che il paziente. Entrambi infatti sono richiedenti asilo, ospitati nella struttura di Cadeo.

Soccorritori picchiati in aumento?

Il problema delle aggressioni ai sanitari però rimane forte e presente in tutta italia. Da Agrigento a Monza, nell’ultimo weekend sono continuate imperterrite le violenze ai danni dei soccorritori volontari o professionisti del 118. Ad Agrigento due operatori della postazione Alfa 3 sono stati aggrediti a calci e pugni, e il medico in servizio è finito all’ospedale “San Giovanni di Dio” per controlli. Stessa situazione in altre città, soprattutto negli ultimi mesi estivi, come a Caserta o a Manfredonia. Che l’aggressore sia italiano o straniero, esistono sempre dei metodi per prevenire l’aggressione, ristabilire la calma e posizionarsi in situazioni di sicurezza.

Prima di tutto il dialogo: stabilire un contatto neutro per migliorare la comprensione della situazione

Il punto principale da cui partire è sicuramente il tema del dialogo e dell’empatia, per riconoscere nello scenario che circonda i soccorritori tutti i potenziali rischi. Dato che il volontario non ha strumenti di difesa attivi o passivi, quello di riconoscere la situazione a vere strumenti di mediazione verbali nel proprio bagaglio di competenze è già un primo passo per gestire la situazione, e cercare di non farla arrivare a delle conseguenze ingestibili o violente. Soprattutto quando la situazione si “scalda” in presenza di immigrati, richiedenti asilo o rifugiati, è bene avere qualche competenza linguistica di base per porre il discorso in un territorio meno fraintendibile.

Pochi mesi fa abbiamo parlato con Riccardo Matesic, giornalista e maestro di Kick Boxing (cintura nera II° DAN) e Karate (cintura nera IV° DAN), che ha analizzato con attenzione i passaggi che possono potenzialmente evitare uno scontro. Il principio fondamentale di partenza però è uno solo: “Prima di tutto ci vuole una formazione psicologica per affrontare queste situazioni, in qualunque scenario si avverino” spiega Riccardo “e successivamente serve una formazione fisica. Se la persona aggredita – o che sta rischiando l’aggressione – è preparata psicologicamente a gestire l’emotività, almeno la metà dei rischi sono eliminati prima che l’aggressione vera e propria avvenga”.


Migliorare l’attenzione e la gestione psicologica del contesto

INAUGURATO LO SPORTELLO DI ASCOLTO PER LE DONNE VITTIME DI VIOLENZA DOMESTICA  PRESSO LA FONDAZIONE IRCCS POLICLINICO MANGIAGALLISolitamente quando si parla di aggressione ai soccorritori, non è la vittima dell’evento che aggredisce il soccorritore. Si tratta spesso di un elemento secondario dello scenario di soccorso, un astante, che sia parente, amico o nemico della vittima, si tratta di una persona presente o che compare sul luogo dell’incidente. “La prima regola per gestire una persona in escandescenza o che sta per dare in escandescenza, è dargli tempo. Gestirlo, illustrandogli cosa sta succedendo per riportarlo alla calma. L’obiettivo è spiegare e illustrare con tono pacato e morbidezza cosa si sta facendo, come si sta operando, quale protocollo si usa per migliorare la condizione del paziente”. Questa regola vale anche quando a dare in escandescenza è il paziente stesso – soprattutto se siamo di fronte ad uno stato alterato – ma in questo caso abbiamo più soluzioni per tranquillizzare la vittima. E’ quando l’aggressore viene “da fuori scenario” che la situazione è più complessa.

“Bisogna possedere piccoli rudimenti di psicologia per capire chi abbiamo davanti, il nostro – diciamo – avversario può avere diversi comportamenti. C’è chi sbraita e urla dando sfogo alla sua rabbia, e in questo frangente vale la regola del can che abbaia non morde. Più della persona che fa molta scena, va valutata come pericolosa la persona che guarda in silenzio, mugugna, si gonfia, è nervosa. I comportamenti aggressivi che si riconoscono subito sono le chiusure delle distanze. Una persona che si avvicina con molta decisione al soccorritore, deve portare ad una scelta di riflesso: guadagnare la distanza, mentre si spiega con parole e gesti che non dichiarano aggressività. Mai spingere, non serve gonfiare il petto, non bisogna generare azioni che possano innescare reazioni. Arretrare chiamando la persona aggressiva, per cercare di calmarla, invitarla ad allontanarsi con noi dalla scena, ma tenendo sempre la distanza. Molto spesso le persone che vivono questo stato, una volta passati i 30 secondi dell’attaco d’ira si rilassano, si calmano. Ma in questa fase è importante arrestrare tenendo un braccio come misura di distanza”.

rissaSpostare l’aggressore dal luogo dove un operatore sta effettuando l’intervento è utile, soprattutto se si può portare “il pericolo” in una zona neutra, dove si può parlare con calma e dove la pressione delle azioni salva-vita non è negli occhi dell’aggressore. Sul tema del braccio – un distanziatore tipico in tutte le arti marziali – si apre un universo talmente ampio che è bene affrontarlo in modi più approfonditi.

Ritardare lo scontro e fare squadra

La fortuna dell’equipaggio di emergenza, rispetto al triagista in ospedale, è quella di avere un team di soccorso con cui opera. Meglio se formato da 3 persone, invece che da 2. In questo modo si possono dare attenzioni anche al pericolo, oltre che alla vittima. “In queste situazioni, quello che consiglio è di ritardare al massimo lo scontro fisico. E nel caso in cui non si vedano miglioramenti nella situazione, usare il concetto di squadra per lavorare sul problema primario, che diventa garantire la sicurezza agli stessi operatori”. Questo perché l’aggressore, solitamente, è solitario. “Una volta che si è capita che la situazione è diventata calda e pericolosa, il lavoro di tutti dev’essere quello di coalizzarsi per evitare l’aggressione. Il gruppo deve essere sempre pacifico e deve cercare di far scendere la pressione, parlando, spiegando, mostrando. Se si interviene anche dopo che uno dei componenti è stato toccato e aggredito, bisogna aiutare a spiegare e a lavorare in una certa direzione. A quel punto si è già pronti a difendersi, se serve”. Quando infatti è ormai stata usata anche l’ultima goccia di diplomazia ma l’aggressore permane nel suo intento – e non si parla mai di ore, ma di scene che possono sembrare lunghe ma durano pochi secondi, minuti – bisogna affrontare lo scontro con attenzione e mantenendo la virtù più grande in questi casi: controllo e serenità.

 

Affrontare lo scontro per chiuderlo il prima possibile

Aggressive-patient-in-AE-attacking-nurse-and-paramedic-at-hospital“Purtoppo il livello successivo di cui bisogna parlare – spiega Matesic – è lo scontro. Se si arriva allo scontro, è chiaro a tutti che ci troviamo in un guaio enorme. Prima di tutto perché c’è una vittima che merita attenzione e che invece deve essere ignorata. E poi perché bisogna scontrarsi con un’altra persona, sconosciuta. L’obiettivo è chiudere lo scontro il prima possibile”. Ci sono sempre delle regole da rispettare in questi casi, che sono i più balordi da affrontare perché la violenza di strada è tradizionalmente senza “regole”. “La prima regola che vige sempre – spiega Riccardo – è di non fare mai quello che l’avversario si aspetta. Un esempio è la fase di spintonamento. L’aggressore solitamente spinge in avanti con le braccia col torace, per trovare la giusta distanza con cui sferrare un diretto, un pugno al volto. Spinta-mezzo passo-diretto. Passa del tempo in questo frangente, in cui bisogna essere concentrati e capire che l’avversario si aspetta che tu vada all’indietro. Se vai di lato, obliquo, lo spiazzi un attimo, un attimo che gli serve per capire cosa succede, come recuperare. Chiaramente questa regola vale con il balordo, non con l’esperto. Ma posso dire che l’esperto, chi in qualche modo incrocia i guantoni o va in palestra a fare boxe o arti marziali, difficilmente picchia per strada e va a cercarsi guai. Questa regola vale per gli improvvisati, i balordi che in strada si sono abituati a un certo comportamento, ma che non sono mai saliti su un ring. L’improvvisato ha mosse prevedibili e tempi di reazione leggermente più lunghi”. Una volta rotto lo schema d’attacco dell’aggressore, ci sono due strade: neutralizzare la minaccia contrattaccando, oppure allontanarsi per parlare e per ragionare. Ma se il primo caso per il soccorritore è foriero di sventure future (querele in primis) il secondo dev’essere messo in atto bene per evitarsi un ritorno alla carica più scomposto.

Se non puoi attaccarlo, esci dallo scontro

paramedics-episode-1-27-390x285“Quando si esce da un attacco, è quindi bene uscire in obliquo. Se si può neutralizzare l’attaccante con una contromossa (a seconda della situazione) allo stesso modo bisogna colpire in obliquo, con velocità, e allontanandosi subito, senza aspettare la reazione. Il linguaggio del corpo in questo caso è chiaro: se ci si sta allontanando, senza dare spalle all’aggressore, significa che si vuole parlare, non si vuole combattere”. In funzione del tipo di aggressione, della stazza e del numero di aggressori, esistono diverse tecniche. “Ma bisogna fermarsi prima di affrontare tanti aspetti che possono mettere confusione – spiega Riccardo – perché prima di tutto va affrontata la preparazione. Il soccorritore che deve difendersi deve avere occhio, allenamento e nessuna emozione. L’emotività toglie il 50% della capacità di ragionare e reagire. Si partirebbe svantaggiati rispetto ad un aggressore che, se aggredisce, potrebbe farlo frequentemente ed essere tranquillo in questa situazione, senza paura”. E’ necessario che sia più diffusa la conoscenza delle conseguenze che si hanno attaccando un soccorritore, che è rivestito della stessa protezione che ha un pubblico ufficiale. Questo può fare da deterrente, anche se spesso non basta. “Una volta arrivati allo scontro bisogna cercare una via d’uscita, che ci dia la possibilità di scappare lontano, se abbiamo buone gambe, o di guadagnare una posizione difensiva adeguata. “I diversivi sono molti ma sempre fondati su un’azione di contrattacco all’aggressore – spiega Riccardo – e varia molto il tipo di scuola marziale che si segue. Il Krav-Maga tende ad annullare la pericolosità dell’aggressore, nel contrattacco. Le arti marziali più conosciute, come il Karate, hanno finalità che sono più specifiche, come rendere impossibile all’aggressore la replica. Oppure ci sono arti, come l’Aikido, che usano l’energia dell’aggressore per metterlo in condizione di non nuocere, proiettando lontano il violento.

Tanto lavoro da fare, con istruttori specializzati

Foto da: Paramedic self defence

Non è possibile affrontare in un articolo di giornale tutto lo scibile e la tecnica che un soccorritore può apprendere in un corso di autodifesa. Non è nemmeno lontanamente immaginabile cosa si possa invece imparare a fare con un buon allenamento continuo e specifico. “Il consiglio che mi sento di dare – spiega in chiusura il maestro Matesic – è di lavorare in una direzione formativa doppia: da una parte formare il soccorritore sull’aspetto psicologico, sulla gestione delle paure, dello scontro e delle conseguenze. Bisogna avere una preparazione e uno schema mentale preciso per sapere cosa fare quando si subisce un attacco di quel tipo. A fianco di questo lavoro psichico, va fatto un lavoro di psicologia per capire il tipo di aggressore. Avere diverse opzioni da intraprendere quando la persona sta per attaccare, saper riconoscere i segnali dell’aggressore che sta per partire (riempie i polmoni, ha lo sguardo vuoto, a volte alza le spalle, saltella, ecc…), sono cose basilari. Avere una conoscenza del linguaggio corporeo può aiutarci e magari farci agire con una cosa inaspettata, non violenta, ma che rompe la sua decisione, crea indugi, toglie la distanza che l’aggressore si è creato per colpire. Ci vuole formazione psicologica per affrontare queste cose. Si può ragionare infine sulla formazione tecnica, pratica. Sapere cosa usare per difendersi, sapere come reagire o come affrontare il problema. Non sono cose immediate, e a fianco di queste serve una formazione fisica. In realtà questa farebbe bene a tutti, sempre. Ma dobbiamo essere in grado di fare determinate cose con il nostro corpo, quando siamo aggrediti. Dobbiamo muoverci velocemente, controllare i piedi, controllare l’equilibrio. Bisogna imparare ad essere a proprio agio con il proprio corpo”.

Per questo motivo è necessario diffondere il più possibile l’importanza delle tecniche di autodifesa fra i soccorritori, che vivono ogni giorno realtà e situazioni complesse in cui il controllo della rabbia e delle emozioni degli astanti non sempre è facile o completo. Se vuoi maggiori informazioni, se vuoi altri training sull’argomento, contattaci.

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