Alluvione Genova, day after: franano anche i cimiteri, allerta senza fine

Il giorno dopo la Grande Alluvione Genova e la Liguria non hanno neppure più la forza di contare i danni

GENOVA – La Liguria è di nuovo in stato di Allerta 1 e 2. Il premier Matteo Renzi dall’Australia spara sui venti anni di devastazione del territorio, compiuto anche dalle giunte di sinistra come quella ligure e annuncia rottamazioni. Il giorno dopo la notizia è quella del cimitero di Bolzaneto, sfondato dalle frane, che rovescia nei torrenti straripati le bare e gli ossari in una scena apocalittica e quasi riassuntiva della sciagura in un a terra ridotta in poltiglia e nelle cui viscere non hanno pace neppure i morti.

La Grande Alluvione è arrivata dopo le prove generali di Genova, di Chiavari, degli straripamenti del Bisagno, del Rupinaro, dell’Entella. E’ arrivata dopo 44 anni di storia recente, ritmati dai disastri del cielo, senza calcolare quanto era accaduto prima dello storico 1970 ( 32 morti tra Voltri e Genova) che è meglio non parlarne, perchè ce ne furono a centinaia nel 1800, ma quello era un altro mondo.
La Grande Alluvione, che colpisce tutto il Nord Ovest, ma ha la sua punta tragica di compasso nel cuore della Liguria, è arrivata con un Allerta 2, il settimo Sos dai primi di ottobre e ha sommerso tutta la regione, ha fatto esondare quasi tutti i torrenti, i rii, i fiumi che questa catastrofe porta alla dignità equamente distribuita di killer.

E’ arrivata, questa Super inondazione, con picchi di precipitazione di 350-400 millimetri in un’ora, dall’estremo Ponente della Liguria, da Ventimiglia, da Imperia, dalla costa della Baia del Sole, tra Alassio e Laigueglia, finiti sott’acqua per la prima volta storica, con le spiagge di sabbia difese per secoli nella loro integrità di bellezza dalla salvifica alga Poseidonia e oggi mangiate completamente dal mare, che muggiva di sotto mentre di sopra nel cielo era l’inferno.

E’ come rimbalzata questa maxiperturbazione, carica di saette, di temporali rigenerati su se stessi per ore e ore, da quella costa dorata a Savona, nel suo entroterra, ex industriale, è scivolata rapida, spinta da venti mai calcolati per la loro forza verso Genova, che era “caduta” un mese e sette giorni fa sotto il colpo del Bisagno straripato. E qui ha compiuto il suo capolavoro, quello che mai era successo nell’epoca moderna, facendo esondare quasi tutti i suoi torrenti, a incominciare da quelli che avevano ucciso e devastato nel 1970, come il Cerusa, il Polcevera, il Torbella, lo Stura, che scende dal passo del Turchino e poi via via, andando verso il cuore della città ex Superba, tra trombe d’aria a Cornigliano e valanghe d’acqua a Sestri e Pegli, ha gonfiato il Bisagno e il Fereggiano, i killer numero uno, facendo suonare le sirene d’allarme come in tempo di guerra, con le forze dell’ordine a presidiare ponti e zone da evacuazione.

Il Bisagno, il cui nome fino a ieri nessuno conosceva fuori Genova e oggi passa come il killer più ricercato d’Italia, si è fermato di un pelo sotto il segno dello straripamento, che se lo avesse passato, allora la giornata maledetta sarebbe diventata la fine della città.

Il sindaco di Genova, Marco Doria, il re Travicello, erede degli ammiragli-dogi, padroni genovesi dal secolo tredicesimo alla caduta della Repubblica, un nome, un destino di guerre del mondo rinascimentale e oggi del mondo alluvionale nel terzo millennio, segnato da questi terribili tempi atmosferici, ha fatto avvertire centomilanove cittadini della popolazione di cinquecentosettantamila, con telefonate di allerta di non uscire di casa, mentre la pioggia martellava senza sosta, tra mezzogiorno e le quattro, in un clima plumbeo di cielo nero .

La Grande Alluvione, che ha portato le precipitazioni a un tetto globale di 890 millimetri su Genova in un mese (la media annuale è 1100), è diventata letteralmente una “catastrofe”, come l’ha battezzata nel pomeriggio, proprio con questo ternine letterale, la assessora alla Protezione Civile, Raffaella Paita del Pd, dal cuore di un servizio pubblico che aveva per tempo dato l’allarme, probabilmente salvando così molte vite umane, ma impotente davanti a uno scatanamento degli elementi che nessuno immaginava di questa “geometrica” potenza e di questa rapidità.

Fino alle ore 18 di sabato la Liguria intera e Genova al centro di quel compasso erano come in un incubo mai visto, sotto un cielo nero che si muoveva lentamente verso Levante, ma che martellava a ripetizione il cuore della città capitale, con sequenze a raffica mentre il bollettino delle esondazione e delle frane veniva aggiornato minuto per minuto dalla diretta televisive delle due emittaenti locali “Primo canale” e “TeleNord”, con cronache intervallate dalle telefonate di una cittadinanza disperata, impotente, invitata, appunto, a starsene a casa, a salire ai piani superiori, che da una parte guardava la propria città finire sott’acqua e dall’altra non sapeva con chi prendersela: con le ire di giove Pluvio che scatena le sue forze del male in un modo tanto violento o con chi ha reso tanto fragile la propria terra da “sciogliersi” quasi sotto queste “bombe d’acqua”, che non si chiamano neppure più cosi, in un festival spaventoso di frane, di crolli, di voragini che si aprono sotto i piedi, in riva ai torrenti straripati, sui cigli di colline rosicchiate da una cementificazione che dura dagli Anni Cinquanta e nessuno ha mai fermato.

Telefonate di rabbia, di pianto, di disperazione, di rassegnazione in una città nella quale più di 150 mila persone vivono gli ultimi anni della loro esistenza da soli, “monofaniglie” le chiamano, prevalentemente di donne sole, vedove in maggioranza, un esercito nella Genova considerata la città più vecchia del mondo per il rapporto tra abitanti quattordinenni e sopra i sessantacinque anni, che può esibire nei rapporti demografici del pianeta Terra.

E’ lo spread della vecchiaia che impiomba la città e che quando arriva la catastrofe, salta all’occhio di più perché sono anziani, vecchi, pantere grigie, quelli che stanno murati in casa, mentre il cielo precipita e sono anziani in cerca di salvezza quelli che muoiono, come il pensionato di 66 anni che a Serrà Riccò, un paese sopra la Valpocevera delle trenta esondazioni di questo week end di follia meteo, esce di casa per salvare la sua automobile, mentre la moglie lo guarda dalla finestra e il torrente Polcevera se lo porta via, come la frana di acqua e fango si era portato via la coppia di marito e moglie di Leivi, sopra Chiavri nella catastrofe penultima, quella di martedì notte, mentre uscivano dalla loro casa di cemento armato sulla collina del Tigullio. Li hanno appena sepolti nel cimitero poche ore prima che l’attacco di acqua, fulmini e fango si scatenasse ,tre giorni dopo, da Ponente a Levante nella Grande Alluvione. Anziani o quasi anziani, come quel Domenico Campanella di 57 anni, travolto dalla piena del Bisagno la sera dello scorso 8 ottobre. Le vittime 101, 102, 103 e 104 dal 1970 in avanti di questa contabilità senza fine.

Sono le 18 di sabato, quando la morsa si allenta e dopo quattro ore continue la perturbazione si sposta e allenta il suo assedio, un attimo prima che il Bisagno e il suo killer di complemento, il Fereggiano escano dagli argini nel cuore della città di Genova, dove non c’è più un’anima viva in giro se non le pattuglie dei Carabinieri, della polizia, i volontari della Protezione Civile che presidiano le zone a rischio e urlano nell’altoparlante di non uscire di casa, di salire ai piani superiori.
La città, che oramai temeva il peggio del peggio, si guarda dentro e riscopre prima di tutto il suo isolamento, che per ore le strade, le autostrade, le ferrovie si sono interrotte, portando a compimento quella tragica profezia ligure della sua separazione definitiva dal resto del mondo, del suo destino che fu anche la sua fortuna di andare per mare e basta e il resto erano solo eserciti di invasione da fermare o lunghi viaggi a dorso di mulo, di cavallo e poi di carrozza per scavalcare l’Appennino.

Isolati dentro la città fatta di colline frananti, fiumi straripanti, colline sbriciolanti, di quei due grandi torrenti che scorrono nelle due vallate Polvecera e Bisagno, e isolati dal resto, che i caselli autostradali vanno ko, che la autostrada A 10 è chiusa per un pezzo, che un bimbo come quello di sette mesi che abita sulle alture di Prà e che viene colto da una crisi allergica e sta per soffocare non c’è elicottero, né ambulanza che lo possa portare all’Ospedale Gaslini dall’altra parte di Genova, cinquecento torrenti più in là, oltre il centro e che i militi della pubblica assistenza salvano allestendo a casa sua una specie di pronto soccorso e il suo piccolo cuore riprende a battere.

Quante storie di salvataggi estremi, mentre la città frana e si tinge del marrone scuro di quell’acqua che riempie tutto ancora una volta, la terza alluvione in un mese _ conta il governatore, presidente della Liguria da nove anni e qualche mese, Claudio Burlando, che se aveva dei peccati da scontare, come amministratore poco previdente o magari distratto su questi temi idrogeologici nella sua lunga carriera, ora li sta scontando tutti in un colpo solo. Lui, figlio di portuali, nato a Pedegoli, proprio sopra il Fereggiano, oltre quelle curve di cementificazione che hanno costretto il killer di complemento a esplodere fuori dai suoi argini nel 2011!

C’è l’edicolante salvata dai vigili del fuoco con la fiamma ossidrica che aprono la saracinesca chiusa nella sua bottega dalla forza del torrente. C’è la signora trascinata, in una delegazione del Ponente, nella strada principale e che sta per annegare e la salvano con una catena umana, quando è già rassegnata a sparire in un gorgo. C’ è quella famiglia sulle alture di Prà che l’ha salvata il gatto, avvertendo i rumori del crollo della casa inghiottita nel baratro……E ci sono tutte le storie che non si conoscono e che questa volta, la prima volta nella cronaca crescente di queste alluvioni, hanno praticamente riguardato tutta la città nella sua interezza, salvo forse due o tre quartieri, quelli delle alture previlegiate, che hanno avuto uno sviluppo urbanistico più ordinato, più borghese se vogliamo e che non hanno un rio dal nome sconosciuto pronto ad attaccare dall’alto, trasformandosi in umna furia senza freni: Castelletto, Albaro, Carignano, Sant’Ilario, dove c’è anche la villa di Beppe Grillo che questa volta non andrà più a far finta di spalare tra gli angeli del fango, beccandosi i “vaffa” dei ragazzi.

Il day after della Grande Alluvione è quello in cui abitualmente si contano i danni e si vedono volare proprio gli angeli del fango sulla distruzione e si raccolgono le storie della disperazione, del coraggio, della rassegnazione.

Questa volta il sigillo è anche diverso: il potere costituito, quello del sindaco Doria, del governatore Burlando, della assessora Raffaella Paita, dell’assessore comunale Crivello, della Protezione Civile ha un atteggiamento diverso, perchè la catastrofe è stata tanto conclamata e vissuta che non è più l’ora delle discussioni, delle polemiche interne, neppure dell’ira funesta, che si scarica sulla classe politica e sulle sue emanazioni, da respingere o evitare.

E’ come se fosse eccheggiato un “Dies iri, Dies Illa” nel cielo nero di Genova e della Liguria e il conto delle centinaia di milioni di danni da risarcire, da chiedere allo Stato insieme alle deroghe al patto di stabilità, che comuni senza più un euro in cassa e milioni stabili nelle loro piccole casseforti, si compila, ma in un silenzio, appunto, catastrofico.
Si aspetta, magari chiedendosi come mai il premier Matteo Renzi in missione al G20 in Australia lanci da così lontano la sua folgore, denunciando pure le giunte di sinistra che governano i territori da venti anni senza proteggerli e annunciando che vanno, quindi, rottamati da un esecutivo come il suo, che come prima azione aveva messo in campo quella di disegnare una mappa delle emergenze idrogeologiche italiane.

Come dire: lasciateli discutere questi politici di Roma, di Genova, della Liguria, lasciateli scannare sulle responsabilità storiche e attuali di disastri come questi. Tutti i nodi sono venuti al pettine di colpo: piove come non si ricorda a memoria d’uomo, ma forse è già successo e il territorio è disastrato, dissanguato da decenni di spregio, abbandonato da una popolazione che ha lasciato la sua terra, desertificato nella sua cura, spolpato nei suoi alberi, nelle radici che frenavano l’acqua del cielo.
E’ una situazione irrimediabile e cosa sono mille miliardi di euro e quanti anni ci vorranno per incominciare a mettere alla briglia quei mille corsi d’acqua che scendono dalle colline, dalla montagna scorticata e per costruire gli scolmatori, i deviatori del Bisagno e del Fereggiano?
I miliardi, la classe politica e quella amministrativa e quella burocratica, la longa manus della politica, li hanno avuti a disposizione, eccome: li avevano in tasca e non li hanno usati per questo.

Se li sono tenuti nelle casse come i 280 milioni di Fondi statali Fas concessi alla Liguria tra il 2006 e il 20013 e di cui ne hanno spesi 90 e rendicontati solo 56, come i fondi per la Protezione Civile “deviati” dal Fereggiano prima del 2010 verso ad altre opere, magari più interessanti da un punto di vista elettorale e clientelare.
Deviati magari quando la morsa delle alluvioni nel corso degli anni si era un po’ allentata perchè il clima va così e ci ricordiamo pure la siccità degli anticicloni e gli invasi a secco, mentre ora la Liguria imputridisce in ogni sua fascia, lungo ogni declivo.

Il day after della Grande Alluvione si respira, perché arrivano pure i miracoli e la vittima della Grande Alluvione del 15 novrembre 2014 è solo una, anche se i danni sono da Ponente a Levante incalcolabili.

Il day after, oltre alla polemica tra Renzi e i governatori, è quello della notizia di quel cimipero di Bolzaneto in Valpolcevera, chiamato Biacca, che l’alluvione ha sfondato.
Settanta ossari e bare sono finite in uno di quei rii prima senza nome conosciuto, che invece si chiamava Rio Barra, che sfociava nel Polcevera. In una visione da fine del mondo quelle bare e quegli ossari, quelle cassette con le ceneri, li hanno visti galleggiare nel fango insieme a qualche pezzo di corpo decomposto. La Grande Alluvione ha fatto solo un morto, ma i morti sono sfilati lo stesso sullo scenario quasi biblico della distruzione che non rispetta neppure più il tempio sacro delle sepolture.

E’ una specie di terribile Spoon River genovese e ligure davanti alla quale si può solo tacere e, se si crede in Dio, farsi il segno della croce. Amen e attenzione perchè il nuovo Allerta è già stato lanciato.

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