Sindrome dell'accento straniero: le conseguenze di un ictus o di un forte trauma cranico

La sindrome dell’accento straniero è una rarissima disfunzione neurologica che appare in seguito a un ictus o a un forte trauma cranico, costringendo le persone appena svegliate dal coma a riabilitare le proprie funzioni linguistiche con un accento diverso da quello che si conosce

Lo studio delle relazioni tra struttura del cervello e linguaggio è un fondamento della neurologia.

Il fatto di assistere alla perdita di un’abilità comunicativa così specifica e così culturalmente organizzata in seguito alla lesione di un piccolo strato di cellule della corteccia cerebrale è stato lo sprone storico alla ricerca del significato del sistema nervoso in termini di correlazione tra localizzazione e funzione.

Così, dalle ricerche pionieristiche di Broca e Wernicke dei principi del secolo, è partita una lunga strada conoscitiva che ha prodotto gli attuali modelli interpretativi che cercano di descrivere la complessità dell’attività cerebrale.

È interessante notare come questo percorso sia stato sin dall’inizio contrassegnato da due tendenze divergenti: da una parte il riscontro di un’apparente linearità tra sede del tessuto nervoso e competenza funzionale, da cui la correlazione riproducibile e inevitabile tra focalità topografica della lesione e tipo di funzione compromessa (anatomia funzionale ‘classica’), dall’altra la altrettanto puntuale inclusione tra funzioni apparentemente distanti quanto a modalità esecutiva e percezione in uno schema architettonico multivariato (per esempio, i molteplici nodi di integrazione sensori-motoria su livelli sovrapposti e paralleli di elaborazione informazionale che scaturiscono in abilità funzionali separate, come i movimenti degli occhi o la percezione tattile).

L’apparente contraddizione tra queste due tendenze ha prodotto storicamente delle derive teoriche al limite della faziosità, come da una parte il localizzazionismo alla Lombroso (il famoso ‘bernoccolo del genio’), dall’altra l’olismo radicale che ha finito per negare qualsiasi validità e utilità allo studio dell’anatomia funzionale.

Il modello attualmente condiviso è quello di un sistema reticolare in cui le connessioni sono organizzate secondo delle priorità sovrapposte delineanti uno schema filo-ontogenetico dipendente dalla specie e continuamente rimaneggiato da stimoli culturali. In altri termini, il modello di complessità organizzativa include e armonizza le apparenti contraddizioni tra connessioni lineari e ubiquitarietà delle funzioni cerebrali.

Sindrome dell’accento straniero, cosa accade al linguaggio

Tutto questo preambolo può forse dare una chiave di interpretazione alla curiosa ‘sindrome dell’accento straniero’: le aree cerebrali preposte all’espressione linguistica verbale vedono convergere diverse istanze funzionali, alcune recanti le informazioni concernenti ‘il pensiero’ che vuole essere convertito in programma di movimento da parte degli organi fonatori, altre recanti lo stato fisico (stato di contrazione muscolare, tensione tendinea, geometria articolare, ect) in cui questi ultimi si trovano (propriocezione), altre raccolgono il ‘feed-back’ della propria emissione linguistica che costantemente viene ricontrollata in corso di emissione verbale.

Come si può intuire questa produzione comportamentale, analogamente ad altre caratterizzate dal controllo volontario della funzione motoria, è frutto di diversi ‘circuiti’ ricorrenti che convergono su una struttura funzionalmente interpretabile come ‘via finale’, cioè il linguaggio.

Ma essendo questa struttura contemporaneamente composta dalla proiezione di altre strutture, si può sempre ipotizzare una lesione così piccola da disturbare isolatamente un aspetto della sua produzione.

Quindi se viene meno la componente d’informazione che contiene il riconoscimento della propria voce e della propria articolazione del linguaggio, l’emissione linguistica può risultare ‘turbata’ rispetto a quello che il soggetto normalmente produce verbalmente, senza che avvenga la normale ‘autocorrezione’ della sua emissione fonetica.

Perché si parla di epigenetica riferendosi alla sindrome dell’accento straniero?

La dissociazione tra gli elementi costitutivi del prodotto finale, cioè l’eloquio, può produrre questi fenomeni ‘bizzarri’.

Ma, nel dettaglio, quali sono le istanze che vengono perturbate in questa dissociazione?

Di che cosa è fatto l’accento di una lingua o un dialetto? L’acquisizione del linguaggio è un processo, crediamo, prevalentemente extrauterino.

Il bambino possiede un terreno innato preparato alla formazione della competenza linguistica (su questo argomento c’è una Letteratura scientifica così ampia e dettagliata da risultarne impossibile anche solo un cenno in questa piccola sede), su cui costruisce un corredo di competenze strettamente legato agli stimoli ambientali connessi al proprio ambiente culturale.

Questo corredo è frutto quindi di un palinsesto geneticamente determinato (genotipo) su cui vengono delineati e rafforzati dei percorsi neuronali recanti delle relazioni strutturali specifiche tra fonema (suono verbale) e pensieri.

Quest’ultimo processo è frutto di un rimaneggiamento strutturale che si inserisce sul Genotipo e che chiamiamo fenotipo.

Siamo portati a credere, almeno secondo il pensiero scientifico dominante (ovvero, non ancora turbato dalle nuove frontiere della ricerca d’avanguardia), che la distinzione tra terreno genetico e influenza culturale sia invalicabile.

Però questo ‘dogma’ ci impedisce di capire un fenomeno come la ‘sindrome dell’accento straniero’

In quale zona della corteccia cerebrale verrebbe depositata geneticamente la competenza dell’accento inglese?

E di quello napoletano?

E se un paziente napoletano, in seguito ad un ictus, cominciasse a parlare con un accento della provincia di Padova, dovremmo supporre che da qualche parte della sua area della corteccia cerebrale vi fossero già le variazioni vocaliche e le musicalità prosodiche (la prosodia è proprio la ‘cantilena’ che caratterizza i dialetti, tipiche quelle dei napoletani e dei veneti) di 700 Km di distanza?

Evidentemente c’è qualcosa che ci sfugge…

Un ‘escamotage’ a questo tipo di paradossi era stato elaborato, anche se indirettamente e con argomentazioni di ben più ampio respiro, dall’antropologo e psichiatra svizzero C.G.Jung ai principi del 900: in buona sostanza, secondo Jung, ogni individuo (inteso come entità mentale complessa) trae origine da un coacervo di “informazioni” che sono sedimentate nell’umanità  e che vengono trasmesse in forma inconscia attraverso una sorgente di ‘patrimonio culturale universale’.

Quello che noi riconosciamo razionalmente attraverso i canali comunicativi coscienti non sarebbe altro che una scorza che di fatto nasconderebbe una sorta di conoscenza globale comune a tutta l’umanità di tutti i tempi.

C’è da notare, a parte l’enorme salto filosofico che rende a quel punto inutile la puntigliosa ricerca delle relazioni tra struttura nervosa e funzione (non a caso Jung, a sua insaputa e credo con suo ultraterreno rincrescimento, viene spesso portato a supporto di tutte le varie strampalate teorie olistiche new-age che con la scusa della ‘complessità’ si arrogano il diritto di curare i pazienti senza studiare prima l’anatomia e la fisiologia), che lo studioso svizzero porta all’osservazione di casi clinici in un certo senso simili a quelli della Sindrome dell’accento straniero: pazienti schizofrenici che delirando utilizzano parole straniere che non avevano mai studiato, addirittura sogni ‘in lingua’ in cui vengono riportati brani di poemi dell’antichità, e vari altri esempi di ‘salto culturale’ inspiegabile.

D’altra parte questo tipo di ‘meraviglia’ è parte costituente dell’immaginario sovrannaturale della cultura umana, dagli sciamani che acquisiscono il linguaggio degli animali fino (con rispetto parlando) al miracolo della Pentecoste in cui i discepoli di Gesù diventano improvvisamente padroni di tutte le lingue del mondo.

Qui, dove la ricerca scientifica moderna sembra soccombere davanti al fascino della metafisica (in senso proprio aristotelico), si è aperta tuttavia una breccia: da qualche tempo, sulla scorta di importanti ricerche su diversi campi biologici e fisiologici, sta nascendo la consapevolezza che il divario tra genotipo e influsso ambientale non è poi così invalicabile.

In altri termini ci sono evidenze per cui caratteri acquisiti (che possono essere singole variazioni di una proteina ma anche complesse modalità comportamentali) vengono ritrasmessi al genoma che è quindi capace di proiettare il nuovo Fenotipo nelle generazioni successive come tratto geneticamente determinato.

Questa nuova prospettiva, su cui oggi stanno lavorando centinaia di studiosi di tutto il mondo, si chiama epigenetica.

Trasferita sullo studio della neurofisiologia l’epigenetica potrà sicuramente riaprire la partita.

Noi non sappiamo ancora come sia possibile che il napoletano malato si metta a parlare con accento veneto.

Probabilmente prima dovremo capire quali sono le caratteristiche morfo-strutturali del cervello che esprimono questa variabilità; però l’epigenetica forse ci eviterà di pensare che la vista del malato di ‘sindrome dell’accento straniero’ debba spingerci a chiamare un esorcista invece che un medico.

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