Alzheimer, sintomi e diagnosi

La Malattia di Alzheimer (o Morbo di Alzheimer) è la più frequente varietà di demenza primaria nel mondo

L’Alzheimer si presenta gradualmente con la perdita di memoria, difficoltà nei movimenti, perdita della capacità linguistica, difficoltà a riconoscere oggetti e persone.

La diagnosi di Alzheimer è difficile perché questi sintomi si confondono con quelli tipici di altre forme di demenza.

Sintomi di Alzheimer

I sintomi tipici dell’Alzheimer si presentano gradualmente nel decorso della malattia e comprendono:

  • Perdita di memoria;
  • Disorientamento spazio-temporale;
  • Alterazioni dell’umore;
  • Mutamenti della personalità;
  • Agnosia ossia difficoltà nel riconoscimento degli oggetti;
  • Afasia ovvero perdita delle capacità linguistiche;
  • Aprassia ossia incapacità di movimento e coordinazione;
  • Difficoltà di comunicazione;
  • Aggressività;
  • Mutamenti fisici.

Che cosa si intende per demenza

Per demenza si intende la perdita, più o meno rapida, delle funzioni corticali superiori.

Le funzioni corticali superiori vengono distinte in quattro grandi categorie: fasia, prassia, gnosia e mnesia.

  • La fasia è la capacità di comunicare attraverso una codificazione linguistica, sia essa scritta che parlata;
  • la prassia è la capacità di dirigere i movimenti volontari del corpo in relazione ad un progetto (prassia transitiva) o ad un’istanza comunicativa gestuale (prassia intransitiva);
  • la gnosia è la capacità di attribuire un significato agli stimoli provenienti dal mondo circostante e/o dal proprio organismo;
  • la mnesia è la capacità di acquisire notizie dalle interazioni con il mondo e di saperle rievocare successivamente secondo una corretta cronologia.

Queste quattro funzioni, in realtà assai embricate tra loro (si pensi ad esempio a quanto l’espressione di un linguaggio scritto dipenda dall’integrità degli schemi motori adatti a metterlo fisicamente in atto, oppure quanto la capacità di ricordare fatti o oggetti sia legata alla capacità di coglierne il corretto significato), sono il bersaglio delle malattie caratterizzate da demenza, come l’Alzheimer.

Esistono altre importanti categorie direttamente ascrivibili alla funzionalità della corteccia cerebrale, quali il giudizio, il tono dell’umore, l’empatia e la capacità di mantenere una costante linearità del flusso delle idee (ovvero l’attenzione), ma i disturbi che colpiscono elettivamente queste altre funzioni vengono, più o meno lecitamente, fatte rientrare nell’ambito dei disordini psichiatrici.

La demenza tra psichiatria e neurologia

Come vedremo più avanti, questa separazione tra settori specialistici (neurologia e psichiatria) non aiuta nella corretta comprensione del malato demente (e quindi del malato di Alzheimer), che infatti presenta pressoché costantemente la compromissione di tutte le succitate sfere cognitive, seppure con variabili prevalenze dell’una o dell’altra sfera.

Ciò che attualmente continua a separare le due branche del sapere medico (infatti fino agli anni ‘70 integrate nell’unica disciplina “neuropsichiatria”) è il mancato riscontro di un chiaro modello biologico macro e microscopico nelle malattie “puramente” psichiatriche.

La demenza è dunque il risultato di un processo, anatomicamente riscontrabile, di degenerazione delle cellule della corteccia cerebrale adibite alle funzioni cognitive.

Nella definizione vanno pertanto escluse quelle condizioni di sofferenza cerebrale che compromettono lo stato di coscienza: il paziente demente è vigile.

Demenza primaria e demenza secondaria

Appurata la condizione di demenza, insorge l’ulteriore importante distinzione tra forme secondarie a danni cerebrali provocati da disordini a carico di strutture non nervose (prima di tutto l’albero vascolare, poi i rivestimenti meningei, quindi le cellule del connettivo di sostegno), forme secondarie dovute a danni nervosi suscitati da agenti causali noti (infezioni, sostanze tossiche, attivazioni anomale dell’infiammazione, errori genetici, traumi), infine al danno della cellula nervosa privo di cause note, ovvero “primario”.

Il fenomeno del danno neuronale primario che colpisce selettivamente le cellule nervose della corteccia cerebrale adibite alle funzioni cognitive (detta anche “corteccia associativa”) rappresenta il vero substrato patologico di ciò che definiamo Malattia di Alzheimer.

Gradualità dei sintomi nella malattia di Alzheimer

La demenza di Alzheimer è una malattia cronico-degenerativa, la cui subdola insidiosità è talmente nota alla popolazione da rappresentare uno dei più frequenti timori che spingono i pazienti, specie dopo un certa età, a richiedere una visita neurologica.

Il motivo biologico di quest’andamento graduale dei sintomi all’esordio della malattia di Alzheimer è insito nel concetto di “riserva funzionale”: le capacità di compensazione offerte da un sistema caratterizzato da un’ampia ridondanza di connessioni, com’è il cervello, permette a quest’ultimo di riuscire a garantire il mantenimento delle capacità funzionali fino ad un minimo termine numerico di popolazione cellulare, superato il quale appare la perdità di funzione il cui decadimento assume da quel momento in poi una progressione catastrofica.

Per concepire tale andamento bisogna allora immaginare che la malattia microscopica si instauri gradualmente diversi anni prima della sua manifestazione clinica, il cui decorso sarà tanto più rapidamente devastante quanto più precocemente si era manifestato il processo di morte cellulare silente.

Le fasi del Morbo di Alzheimer e i relativi sintomi

Chiarita questa dinamica temporale, diviene più agevole interpretare i sintomi che contrassegnano il decorso, ahimè implacabile, della malattia: scolasticamente, si distinguono una fase psichiatrica, una fase neurologica ed una fase internistica, terminale, della malattia.

L’intero decorso clinico si staglia su un periodo medio di 8-15 anni, con ampie variazioni interindividuali legate a diversi fattori, primo fra tutti il grado di esercizio mentale che il paziente ha mantenuto nel corso della propria vita, riconosciuto come principale fattore favorente il prolungamento della durata di malattia.

Fase 1. La fase psichiatrica

La fase psichiatrica è, dal punto di vista del benessere soggettivo del malato, in fondo il periodo più penoso.

Egli comincia ad avvertire la propria perdita di affidabilità rispetto a se stesso ad al prossimo, è conscio di commettere errori nell’esecuzione di compiti e condotte a cui normalmente non dedicava quasi attenzione: la scelta del vocabolo più adeguato nell’espressione di un pensiero, la migliore strategia per raggiungere una meta guidando l’autoveicolo, la rievocazione corretta della successione di eventi che hanno motivato un episodio eclatante.

Il paziente avverte angosciosamente le oggettive perdite di abilità, ma queste sono così sporadiche ed eterogenee da non fornirgli delle logiche spiegazioni.

Teme di manifestare le proprie mancanze, quindi tenta costantemente di nasconderle al pubblico, oltre che a se stesso.

Questo stato di stress psico-emotivo conduce ciascun paziente affetto da alzheimer ad assumere diversi assetti comportamentali, in base ai propri tratti di personalità:

  • chi diviene intollerante e finanche aggressivo rispetto ad ogni manifestazione di attenzione da parte dei congiunti;
  • chi si chiude in un mutacismo che assume presto caratteristiche indistinguibili da uno stato depressivo del tono dell’umore (spesso ricevono, in questa fase, prescrizioni di farmaci antidepressivi);
  • chi dissimula ostentando le proprie capacità comunicative, finora integre, divenendo faceto o addirittura fatuo.

Questa spiccata variabilità ritarda sicuramente l’inquadramento diagnostico della malattia, anche ad occhi esperti.

Vedremo più avanti come la diagnosi precoce del Morbo non è purtroppo determinante nell’influenzare la storia naturale della malattia quanto piuttosto essenziale per preservare il più possibile l’integrità della qualità della vita dei familiari dei pazienti.

Fase 2. Fase Neurologica

Nella seconda fase, neurologica, compaiono chiaramente i deficit delle quattro funzioni corticali superiori enunciate precedentemente.

Non sembra esserci una regola, ma nella maggior parte dei casi le prime funzioni ad essere compromesse sembrano essere quelle gnosiche-attentive.

La percezione del proprio sé, sia sul piano della propria integrità corporea che sul piano della disposizione architettonica del mondo circostante, comincia a vacillare provocando da un lato una minore capacità di avvertire il proprio stato di patologia (anosognosia, fatto che libera in parte il paziente dallo stato di angoscia predominante nella fase precedente), sia di collocare correttamente gli eventi nella corretta disposizione spazio-temporale.

Tipicamente, il soggetto rivela una incapacità nel ripercorrere un tragitto già intrapreso avendo in mente la disposizione delle strade appena attraversate.

Queste manifestazioni, che sono peraltro comuni a persone non dementi per effetto di banali distrazioni, vengono spesso interpretate come “perdite di memoria”.

È importante stabilire l’entità e la persistenza degli episodi di perdita della memoria, perché il deficit mnesico vero e proprio può d’altra parte essere una manifestazione benigna del normale processo di invecchiamento cerebrale dell’anziano (il tipico deficit della rievocazione mnesica a breve termine che viene compensato dall’accentuazione degli eventi trascorsi molti anni prima, questi ultimi spesso arricchiti di particolari realmente accaduti).

Al successivo completo disorientamento spazio-temporale si cominciano ad associare fenomeni dispercettivi, talora con carattere di vere e proprie allucinazioni visive ed uditive e spesso con contenuti terrifici.

Il paziente comincia ad invertire il ritmo sonno-veglia, alternando lunghe fasi di inerzia vigile a scoppi di irrequietezza, talora aggressiva.

Il disconoscimento dell’ambiente circostante lo porta a reagire con stupore e sospetto a situazioni fino a prima familiari, la capacità di acquisizione di eventi nuovi viene a perdersi strutturandosi una completa amnesia “anterograda” che compromette definitivamente la capacità di attribuire significato al proprio vissuto.

Contemporaneamente vengono perdute le usuali attitudini gestuali, la mimica faciale e la postura divengono incapaci ad esprimere messaggi condivisi, il paziente perde dapprima le abilità costruttive che richiedono pianificazione motoria (ad esempio, cucinare), poi anche le sequenze motorie che si svolgono con un relativo automatismo (aprassia dell’abbigliamento, fino alla perdita dell’autonomia connessa all’igiene personale).

La compromissione fasica vede coinvolte entrambe le componenti che classicamente vengono distinte nella semeiotica neurologica, ossia quella “motoria” e quella “sensitiva”: si verificano infatti sia un chiaro impoverimento lessicale, con numerosi errori di espressione motoria delle frasi, sia un incremento della fluenza spontanea dell’eloquio che perde progressivamente di significato per lo stesso paziente: il risultato è spesso una stereotipia motoria in cui il paziente declama ripetutamente una frase più o meno semplice, in genere mal pronunciata, del tutto afinalistica e indifferente alla reazione dell’interlocutore.

L’ultima funzione che viene perduta è quella del riconoscimento dei familiari, tanto più tardiva quanto questi sono stati stretti.

Questa è la fase più penosa per i congiunti del paziente: dietro le fattezze del loro caro si è progressivamente andato a sostituire un essere sconosciuto che è peraltro diventato ogni giorno più gravoso sul piano assistenziale.

Non è esagerato affermare che alla fine della fase neurologica l’oggetto delle cure mediche è gradualmente stato trasmesso dal paziente ai suoi più stretti familiari.

Fase 3. La fase internistica

La fase internistica vede un soggetto ormai privo di iniziativa motoria e di intenzionalità delle azioni.

Gli automatismi vitali si sono racchiusi nelle sfere immediatamente alimentare ed escretiva, spesso sovrapponendosi l’un l’altro (coprofagia).

Il paziente è spesso anche portatore di patologie d’organo connesse alla tossicità dei farmaci che sono stati necessariamente assunti per controllare gli eccessi comportamentali delle fasi precedenti di malattia (neurolettici, stabilizzatori dell’umore, ect).

Al di là delle specifiche condizioni d’igiene e di assistenza in cui ciascun paziente può venirsi a trovare, la maggior parte di loro viene sopraffatto da infezioni intercorrenti, la cui letalità sembra particolarmente favorita dalle condizioni di decadimento psico-motorio; altri vengono colti da infarto, molti muoiono per incoordinazione della deglutizione (polmonite ab ingestis).

Fase 4. La Fase terminale

Le fasi terminali lentamente degenerative sono caratterizzate da malnutrizione, fino alla cachessia e patologia multiorganica, fino al completo marasma delle funzioni vegetative.

Purtroppo, ma comprensibilmente, il decesso del paziente viene spesso vissuto dai familiari con una sottile venatura di sollievo, tanto maggiore quanto più lungo è stato il decorso della malattia.

Alzheimer: le cause

Le cause della Malattia di Alzheimer sono a tutt’oggi sconosciute.

Non altrettanto si può dire a proposito delle conoscenze biomolecolari e dei processi patogenetici progressivamente chiariti nell’arco degli ultimi 50 anni di ricerca.

Comprendere cosa succede alla cellula nervosa colpita dal morbo non vuol dire infatti individuare necessariamente quel particolare evento che innesca il processo patologico, evento la cui eliminazione o correzione potrebbe permettere la guarigione della malattia.

Sappiamo oggi con certezza che, come per altre malattie degenerative primarie del sistema nervoso centrale come il Morbo di Parkinson e la Sclerosi Laterale Amiotrofica, il meccanismo patologico di fondo è l’apoptosi, ovvero una disfunzione dei meccanismi che regolano la cosiddetta “morte cellulare programmata”.

Sappiamo che ciascun tipo di cellula dell’organismo è caratterizzato da un ciclo che vede alternarsi una fase di replicazione (mitosi) e una fase di attività metabolica che è specifica per tipo di cellula (ad esempio l’attività biochimica della cellula del fegato rispetto all’attività secretiva della cellula dell’epitelio intestinale).

La quantità reciproca di queste due fasi non solo è specifica per ogni tipo cellulare ma varia lungo il processo di differenziazione delle linee cellulari dalla vita embrionale fino alla nascita.

Quindi i precursori embrionali dei neuroni (neuroblasti) si replicano molto rapidamente durante lo sviluppo embrionale del cervello, raggiungendo ciascuno una maturità che coincide con i primi mesi dalla nascita, in cui la cellula diviene “perenne, ovvero non si replica più fino alla morte.

Il fenomeno prevede che le cellule nervose mature tendano a morire precocemente rispetto alla durata di vita attesa del soggetto, per cui in età senile il numero di cellule tuttora in vita risulta grandemente inferiore a quello iniziale.

Alla morte cellulare, che avviene con un meccanismo di “uccisione” attiva da parte dell’organismo, appunto “programmata”, corrisponde un maggiore consolidamento delle connessioni già avviate dalle cellule superstiti.

Questo processo attivo, detto apoptosi, è uno dei substrati morfo-dinamici più importanti dei processi di apprendimento del cervello, oltre che del fenomeno globale dell’invecchiamento.

Sui particolari bio-molecolari implicati in questo complesso fenomeno della vita del neurone abbiamo oggi una mole impressionante di dati e di chiarimenti.

Quello che ancora non è chiaro è quale meccanismo regoli l’attivazione dell’apoptosi nelle cellule normali e, soprattutto, per quale particolare evento nella Malattia di Alzheimer l’apoptosi venga attivata in misura così tumultuosa e incontrollata.

Epidemiologia del morbo di Alzheimer

Si è accennato al fatto che la Malattia di Alzheimer, se correttamente diagnosticata, giunge a superare la vetta della più frequente malattia neurodegenerativa primaria al mondo.

Poiché le motivazioni socio-sanitarie che spingono la ricerca epidemiologica si riferiscono soprattutto agli effetti invalidanti delle varie malattie, le statistiche più rilevanti si riferiscono alla sindrome psico-organica nell’insieme, ovvero la demenza in genere.

Nei Paesi Europei si stimano attualmente 15 milioni di persone affette da demenza.

Gli studi che più dettagliatamente analizzano la Malattia di Alzheimer quantificano quest’ultima al 54% rispetto a tutte le altre cause di demenza.

I tassi d’incidenza (numero di nuovi casi diagnosticati per anno) sono nettamente variabili in base ai due parametri apparentemente più incisivi, ossia l’età e il sesso: sono state ripartite due fasce d’età, da 65 a 69 anni e da 69 in poi.

L’incidenza può essere espressa come numero di nuovi casi sul totale di soggetti (fatto 1000) a rischio di essere colpito in un anno (1000 anni-persona): tra i maschi nella fascia tra i 65 e i 69 anni il Morbo di Alzheimer è di 0,9 1000 anni-persona, nella fascia successiva è di 20 1000 anni-persona.

Tra le femmine, invece, l’incremento varia da 2,2 nella classe d’età compresa tra i 65 e i 69 anni a 69,7 casi per 1.000 anni-persona in quella >90 anni.

Diagnosticare il morbo di Alzheimer

La diagnosi di Malattia di Alzheimer passa attraverso la constatazione clinica della demenza.

La modalità e la successione dei sintomi descritti precedentemente è nella realtà molto variabile e incostante.

Capita spesso che un paziente descritto dai familiari come perfettamente lucido e comunicativo fino a qualche giorno prima giunga in osservazione al pronto soccorso perché durante la notte è uscito per strada in uno stato di completa confusione mentale.

Il processo degenerativo che colpisce la corteccia cerebrale nel corso di Malattia di Alzheimer è certamente un fenomeno diffuso e globale, ma la sua progressione può, come in tutti i fenomeni patologici, manifestarsi con estrema variabilità topografica, tanto da simulare eventi patologici di natura focale, come succede ad esempio nel corso di un’ischemia da occlusione arteriosa.

È proprio rispetto a questo genere di patologia, ovvero l’encefalopatia vascolare multiinfartuale che il medico deve inizialmente cercare di orientare la diagnosi corretta.

Le condizioni igieniche, alimentari e lo stile di vita nel mondo civilizzato hanno sicuramente e pesantemente inciso sull’epidemiologia delle malattie e, in misura eclatante, hanno fatto crescere la patologia vascolare ostruttiva cronica nella popolazione in diretta correlazione con l’aspettativa di vita, sempre più avanzata.

Mentre, ad esempio, negli anni ’20 le malattie croniche degenerative vedevano come attori principali le malattie infettive (tubercolosi, sifilide) oggi si parla espressamente di fenomeni nosologici come l’ipertensione e il diabete in termini di endemie a progressione epidemica.

Trovare in un soggetto di età superiore ai 70 anni una Risonanza Magnetica cerebrale completamente scevra da segni di pregresse e multiple ischemie è di fatto una (piacevole) eccezione.

L’elemento confondente è insito nel fatto che, da una parte come si è accennato la Malattia di Alzheimer può avere inizialmente un andamento apparentemente multifocale, dall’altra una progressiva sommazione di eventi ischemici puntiformi a carico del cervello tenderà a prodursi in una demenza quasi indistinguibile dal Morbo di Alzheimer.

A questo si aggiunge il fatto che non vi è nessun motivo per escludere la concomitanza delle due malattie.

Un criterio discriminativo importante, oltre a quello derivante degli esami per neuroimmagini è risaputamente sostenuto dalla presenza, nelle demenze multinfartuali, di un precoce coinvolgimento dei movimenti, che possono assumere caratteristiche di paresi spastica, di disordini simili a quelli presenti nel morbo di Parkinson (“sindrome extrapiramidale”) o avere caratteristiche abbastanza peculiari, anche se non direttamente diagnostiche, come la cosiddetta “sindrome pseudobulbare” (perdita della capacità di articolazione delle parole, difficoltà dell’inghiottire i cibi, disinibizione emotiva, con scoppi di pianto o di riso immotivati) o il fenomeno della “marcia sul passo” che precede l’avvio della deambulazione.

Un criterio forse più incisivo, che richiede tuttavia una buona capacità di raccolta di informazioni, sta nell’andamento temporale dei disturbi; mentre nella Malattia di Alzheimer, per quanto variabile e incostante, si ravvisa una certa gradualità nel peggioramento delle funzioni cognitive, il decorso delle demenze multinfartuali è caratterizzato da un andamento a “gradini”, ovvero gravi peggioramenti delle condizioni sia psichiche che fisiche inframmezzati da periodi di relativa stabilità del quadro clinico.

Se si trattasse di dover distinguere solo tra queste due entità patologiche, per quanto esse rappresentino insieme la quasi totalità dei casi, il compito diagnostico sarebbe tutto sommato facile: esistono invece numerose condizioni patologiche che, per quanto isolatamente di raro riscontro, devono essere prese in considerazione perché portatrici sia di demenza che di disturbi del movimento ad essa associati.

Fare un elenco di tutte queste varianti di demenza esula dallo scopo di questa breve chiacchierata; cito qui solo le malattie meno relativamente rare come la Corea di Huntington, la paralisi sovranucleare progressiva e la degenerazione cortico-basale.

La commistione di disturbi del movimento di tipo extrapiramidale e deterioramento psico-cognitivo è inoltre caratteristica di diverse altre patologie, più “imparentate” con il morbo di Parkinson, come la Demenza a corpi di Lewy.

La possibilità clinica o, come spesso accade, post-mortem di formulare la diagnosi di altre malattie degenerative oltre alla Malattia di Alzheimer non incide purtroppo sull’efficacia delle terapie disponibili allo stato dell’arte.

Si tratta di approfondimenti di ambito strettamente neurologico che assumono al più importanza sul piano conoscitivo ed epidemiologico.

Una diagnosi differenziale importantissima per il paziente è invece l’ipertensione liquorale primaria nota anche come “idrocefalo normoteso dell’anziano”.

Trattasi di una condizione cronica, indotta da un difetto della dinamica di secrezione-riassorbimento del liquor cerebrale, progressivamente ingravescente, in cui si associano disordini del movimento, perlopiù di tipo extrapiramidale, a deficit cognitivi talora indistinguibili dalle manifestazioni iniziali del Morbo di Alzheimer.

La rilevanza diagnostica sta nel fatto che questa forma di demenza è l’unica ad avere qualche speranza di miglioramento o addirittura di guarigione in relazione ad un’appropriata terapia (farmacologica e/o chirurgica).

Una volta formulata la diagnosi di Morbo di Alzheiemer i passi conoscitivi successivi sono rappresentati dalla somministrazione dei test neuropsicologici e psico-attitudinali

Questi particolari questionari, che richiedono il lavoro di personale specializzato ed esperto, puntano non già a formulare la diagnosi di malattia quanto a definirne lo stadio, le aree di competenza cognitive effettivamente coinvolte nell’attuale fase di osservazione e, di converso, le sfere funzionali ancora in parte o del tutto non compromesse.

Questa pratica è importantissima per il lavoro che verrà affidato al terapeuta occupazionale e al riabilitatore, specie se in un contesto di socializzazione ottimale come avviene nelle comunità socio-assistenziali che lavorano con professionalità e passione nel territorio.

La qualità della vita del paziente e della propria cerchia familiare viene allora affidata alla tempestività ed all’accuratezza di quest’ordine di valutazione, soprattutto per stabilire l’opportunità ed il momento in cui il paziente non potrà più essere, fisicamente e psicologicamente, assistito tra le mura domestiche.

Esami diagnostici

Gli esami per neuroimmagini della Malattia di Alzheimer non sono di per sé particolarmente utili, oltre che per quanto detto circa la diagnosi differenziale con la demenza multinfartuale e l’idrocefalo normoteso: in genere la perdita funzionale sopravanza il riscontro macroscopico rilevabile con la Risonanza Magnetica di atrofia corticale, per cui quadri di evidente perdita di consistenza della corteccia si riscontrano in genere quando la malattia è già clinicamente evidente.

Una domanda angosciata che spesso i pazienti rivolgono allo specialista concerne il possibile rischio di trasmissione genetica della malattia.

In genere la risposta deve essere rassicurante, perché la quasi totalità delle Malattie di Alzheimer sono “sporadiche”, ovvero capitano nelle famiglie in assenza di qualsiasi traccia di linea ereditaria.

È vero d’altra parte che sono state studiate e riconosciute delle malattie indistinguibili, sia clinicamente che anatomo-patologicamente dal Morbo di Alzheimer a sicura trasmissione eredo-familiare.

L’importanza di questo fatto sta anche nelle possibilità che il riscontro ha fornito ai ricercatori per lo studio bio-molecolare della malattia: in famiglie con una notevole incidenza di insorgenza sono state infatti individuate delle mutazioni che hanno a che vedere con alcuni riscontri patologici tipici delle cellule ammalate e che in futuro potrebbero essere strategicamente sfruttate nella ricerca di nuovi farmaci.

Esistono anche già dei test di laboratorio che possono essere cimentati in soggetti nella cui linea familiare si sia registrato un chiaro ed eclatante eccesso di casi di malattia.

Trattandosi tuttavia di casistiche che difficilmente superano l’1% dei casi, trovo che in assenza di chiari indizi di familiarità ci si debba astenere da possibili abusi diagnostici dettati dall’emotività.

Prevenzione dell’Alzheimer

Non conoscendo le cause della Malattia di Alzheimer non si possono fornire indicazioni di prevenzione.

L’unico riscontro scientificamente dimostrato sta nel fatto che, pur insorta la malattia, il continuo esercizio mentale ne ritarda il decorso temporale.

I farmaci attualmente utilizzati nella terapia delle forme iniziali, dotati di un razionale biologico convincente, sono la memantina e gli inibitori della ricaptazione dell’acetilcolina.

Per quanto riscontrati parzialmente efficaci nel contrastare l’entità di alcuni disordini cognitivi, non esistono tuttavia ancora studi che ne stabiliscono la capacità di influenzare la storia naturale della malattia.

Per approfondire:

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