Apnee notturne: quali rischi si corrono se non si curano?

Curare le apnee notturne è sempre un bene. Chi ne soffre infatti non mette solo a rischio la salute del cuore ma dell’intero corpo

Tre differenti studi presentati al congresso dell’European Respiratory Society hanno mostrato che chi soffre di apnee notturne è maggiormente a rischio di avere problemi cognitivi, di sviluppare coaguli implicati nel tromboembolismo venoso profondo e potrebbero aumentare il rischio cancro.

Tre ragioni per intervenire tempestivamente.

CHE COSA SONO LE APNEE NOTTURNE?

Le apnee morfeiche ostruttive  -questo il vero nome delle apnee notturne- sono un disturbo del sonno in cui si verifica un temporaneo arresto del respiro che può durare anche molti secondi.

Alla base del fenomeno ci sono diversi fattori come obesità, fumo, conformazione del palato e deviazione del setto nasale.

Le conseguenze del blocco temporaneo sono facilmente intuibili: quando la respirazione è assente per diversi secondi il cuore è costretto ad accelerare bruscamente la frequenza cardiaca e la percentuale di ossigeno che arriva al cervello può scendere sino al 60% (normalmente è al 90% e più).

Secondo recenti studi a soffrire di apnee notturne è il 15% della popolazione over 40.

I sintomi principali sono il russamento, i frequenti risvegli in cui si ha la sensazione di soffocare, la gola secca e l’eccessiva sonnolenza diurna.

Ovviamente la gravità dipende dal numero di episodi.

Un continuo stress che mette a rischio la salute del cuore: le apnee notturne sono un fattore di rischio per lo sviluppo delle malattie cardiovascolari.

GLI EFFETTI A LIVELLO CEREBRALE DELLE APNEE NOTTURNE

Gli studi presentati ad ERS aggiungono qualche tassello in più alla conoscenza.

Nel primo, ad opera dei ricercatori dell’Università di Losanna, è emerso che le apnee notturne negli anziani sono associate ad un peggior declino cognitivo rispetto a chi non ne soffre.

In particolare l’analisi, utilizzando test cognitivi che valutavano conoscenza e capacità di ragionamento, velocità di elaborazione funzione esecutiva come la capacità di organizzare pensieri e attività e dare priorità ai compiti e prendere decisioni, memoria verbale, linguaggio e percezione delle relazioni spaziali tra oggetti, ha mostrato come negli individui al di sopra dei 74 anni la carenza di ossigeno dovuta alle apnee sia un fattore importante nel peggiorare i risultati dei test.

AUMENTATO RISCHIO DI TROMBOEMBOLISMO

Nel secondo, ad opera dei ricercatori dell’Angers University Hospital, si è evidenziato che coloro che trascorrevano più del 6% della notte con livelli di ossigeno nel sangue inferiori al 90% hanno un rischio quasi raddoppiato di sviluppare tromboembolismo venoso profondo rispetto a chi non soffre di apnee notturne.

Un risultato importante, seppur preliminare, che si aggiunge al dato ormai consolidato sull’aumento del rischio infarto e ictus.

IL POSSIBILE LEGAME CON I TUMORI

Il terzo, realizzato in Svezia grazie ai dati del Swedish National Cancer Registry, ha mostrato che vi è una correlazione tra il soffrire di apnee notturne e un aumentato rischio di sviluppare un tumore.

Non solo, dall’analisi è emerso che il rischio era maggiore nei casi in cui l’apnea del sonno era di forma moderata-grave.

Ciò non significa -sottolineano gli autori- che le apnee notturne siano causa diretta dello sviluppo della malattia.

Uno dei grandi limiti dello studio infatti riguarda l’assenza di valutazione dello stile di vita dei partecipanti.

APNEE NOTTURNE, COME SI INTERVIENE?

Fortunatamente le apnee notturne non rappresentano una condizione impossibile da curare.

A seconda della gravità esistono diversi interventi: riduzione del peso e correzione del difetto strutturale delle vie aeree possono portare alla risoluzione del problema.

La cura più diffusa ed efficace però –nei casi dove anche perdere peso non basta- è l’utilizzo di un dispositivo (CPAP) che, attraverso una mascherina nasale, invia una pressione d’aria all’interno delle vie aeree impendendone la chiusura in sonno.

Approcci validi che riportano il rischio infarto ed ictus a livelli paragonabili a quelli delle persone che non hanno il disturbo.

Per approfondire

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Fonte dell’articolo

Fondazione Veronesi

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