Autolesionismo e migrazione forzata: quale relazione e quale terapia?

Con il termine autolesionismo si intende quell’insieme di comportamenti volti a danneggiare se stessi senza alcun intento suicidario

Migrazione forzata e autolesionismo: quale correlazione?

È stato osservato che eventi complessi e traumatici della vita di un individuo, come quello dell’esperienza della migrazione forzata, possono essere connessi ad alcuni comportamenti autolesivi (Gratz, 2006).

Il  processo di adattamento, assimilazione e integrazione a un nuovo contesto culturale può  diventare, infatti, causa di  un traumatismo diffuso e pervasivo, che può essere definito “microtraumatismo quotidiano” (Risso e Boeker, 2000).

Questa sorta di microtraumatismo deriva da una serie di difficoltà a cui il migrante è sottoposto: la perdita dell’ovvietà dell’esperienza quotidiana, continuamente attraversata da elementi incomprensibili che devono essere costantemente sottoposti a un lavoro interpretativo; la frattura del legame fondativo con le origini che diventa causa di continui interrogativi; la necessità di un incessante lavoro di rifondazione identitaria, non possedendo più un corpo-gruppo per costituirsi.

Tutto ciò si aggiunge spesso a pregresse esperienze traumatiche vissute durante il viaggio verso il paese ospitante.

Quando la valenza traumatica di questi eventi supera la capacità individuale di far fronte al dolore, il corpo può diventare teatro di sofferenza e oggetto di attacchi.

La sensazione di non poter esistere sotto nessuna “forma” né psichica né culturale può generare un sentimento di inadeguatezza intollerabile e produrre un forte odio di sé che può manifestarsi in maniera devastante sul corpo, talvolta anche infliggendosi dolore, proprio nel tentativo di trovare un posto a questo odio violento provato verso se stessi (De Micco, 2019).

Il rischio di autolesionismo può essere esacerbato da tre fattori di rischio:

  • Appartenenza contrastata (solitudine; assenza di relazioni di cura reciproche)
  • Onerosità percepita (convinzione di essere così imperfetti da esercitare una responsabilità sugli altri; ideazione affettivamente carica di odio verso se stessi)
  • Capacità acquisita (esposizione protratta a eventi negativi e a esperienze fisicamente e/o psicologicamente dolorose) (Joiner, 2005).

Sensazioni di non appartenenza, isolamento, impotenza, inutilità, senso di colpa e vergogna, comprese nelle tre variabili sopracitate sono comuni a quasi tutti i vissuti di migrazione forzata, diventa dunque facile comprendere come il rischio di compiere atti autolesivi diventa significativamente più accentuato.

Autolesionismo, un target a rischio: i minori stranieri non accompagnati

Come rivela la letteratura sul tema, l’autolesionismo come conseguenza delle vicende migratorie sembra essere un comportamento maggiormente osservabile durante l’adolescenza.

Lo sradicamento, l’abbandono del contesto sociale e culturale d’appartenenza, il viaggio e l’arrivo in un nuovo Paese spesso affrontato senza il supporto e sostegno emotivo dei familiari, possono costituire fattori di stress ancora più difficili da affrontare per gli adolescenti che si trovano a far fronte, contemporaneamente, a cambiamenti fisici, cognitivi e socio-emotivi, compreso lo sviluppo dell’autonomia e dell’identità.

In virtù di queste difficoltà il corpo può diventare vero e proprio “campo di battaglia”, un mezzo di espressione del dolore e dell’angoscia provata.

Il dolore auto-inflitto si configura in questo caso come un modo per sfuggire alla sofferenza o per stemperarla, in una sorta di “stordimento” che consente di non pensare più ad altro.

La ferita permette, cioè, di esperire un sollievo momentaneo, garantendo un periodo di “pausa” (Valastro, Cerutti e Flotta, 2014).

Migrazione forzata e autolesionismo: conclusioni

Quello dell’autolesionismo come possibile esito della migrazione forzata è un fenomeno ancora poco indagato, ma che, laddove esplorato rivela un’incidenza preoccupante.

Inoltre, in letteratura questa condotta viene spesso esplorata sovrapponendola a quella del suicidio.

Accostare queste manifestazioni potrebbe causare una distorsione nella loro comprensione laddove in un caso la volontà è quella di porre fine alla propria vita, nell’altro invece, il bisogno è quello di continuare ad esistere e ritrovare un senso perduto (Gargiulo, Tessitore, Le Grottaglie, Margherita, 2020).

Nell’interpretare questo fenomeno, è inoltre necessario allargare la visuale, considerando non solo la dimensione psicopatologica, ma anche quella antropologica e culturale.

Può, infatti, accadere che il disagio assuma delle forme non facilmente comprensibili dal momento che la visione occidentale non saprà come intenderlo, non potendo contare su modalità universali o culturalmente condivise per manifestarlo o leggerlo (De Micco, 2019).

Riferimenti bibliografici

De Micco V. (2019), Fuori luogo. Fuori tempo. L’esperienza dei minori migranti non accompagnati tra sguardo antropologico ed ascolto analitico, Adolescenza e Psicoanalisi, n. 1, Magi ed. Roma.

Gargiulo A., Tessitore F., Le Grottaglie F., Margherita G. (2020), Self-harming behaviours of asylum seekers and refugees in Europe: A systematic review, International Journal of Psychology, 2020, DOI: 10.1002/ijop.12697

Gratz K.L. (2006), Risk factors for deliberate self-harm among female college students: The role and interaction of childhood maltreatment, emozional inexpressivity, and affect intensity/reactivity, American Journal of Orthopsychiatry, 76, 238-250.

Joiner T. (2005), Why people die by suicide, Harvard University Press, Cambridge, London.

Risso M., Boeker W. (2000), Sortilegio e delirio. Psicopatologia delle migrazioni in prospettiva transculturale, Lanternani V., De Micco V.,Cardamone G. (a cura di), Liguori, Napoli.

Valastro, Cerutti R., Flotta S. (2014), Autolesività non suicidaria (ANS) nei minori stranieri non accompagnati, Infanzia e adolescenza, 13,2, 2014.

Per approfondire:

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Fonte dell’articolo:

Istituto Beck

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