Emergenza e soccorso al tempo dei Partigiani: questo 25 aprile vogliamo ricordare la soccorritrice "Foresta"

Il kit di emergenza era una scatola da carpentiere con lo stretto necessario, tra farmaci, garze e steccature improvvisate. E in ospedale, i partigiani, si passavano sotto falso nome. I pericoli e le avventure di Laura Quadreri, nome in codice "Foresta", ricordano a tutti gli infermieri, medici e soccorritori l'importanza della Liberazione e della lotta al nazifascismo.

REGGIO EMILIA – Il 25 aprile è da molti anni considerato un giorno speciale per la nostra Italia. Nella giornata della Liberazione, molti cuori si commuovono ancora, specialmente chi ha vissuto, dopo tante sofferenze e tribolazioni, gli anni della guerra e della Resistenza.

Molti di loro ormai non ci sono più, ma la memoria della Seconda Guerra Mondiale ce la portiamo addosso. Un po’ per gli studi scolastici, e un po’ per le storie vissute in prima persona che ci raccontavano i nostri nonni o genitori.

Tra queste storie, c’è anche quella di Laura Quadreri, anche chiamata “Foresta”.

Oggi lei non c’è più. É scomparsa nel 2013, all’età di 87 anni, la partigiana “Foresta”, così chiamata durante gli anni della Resistenza. La sua è una storia coraggio e di avventura che tocca il cuore di infermieri, medici e volontari. Una storia che spiega come al tempo della guerra di liberazione dal nazi-fascismo italiano, fra il 1943 ed il 1945, anche il lavoro dei soccorritori fosse fondamentale, ma svolto in condizioni talmente estreme da apparire quasi un romanzo, una fiaba avventurosa agli occhi moderni. Ma che era realtà, all’epoca. Un’epoca dove curare un partigiano avrebbe significato tortura e morte.

Le sorelle Quadreri. Da sinistra, Giovanna (partigiana “Libertà”) e Laura ( partigiana “Foresta”).

Laura Quadreri è stata testimone diretta della Resistenza in diversi spettacoli e in tante iniziative, è stata chiamata “la crocerossina dei Partigiani” per ciò che ha fatto nella 284ma Brigata delle Fiamme Verdi, detta “Italo” sulle montagne reggiane.
Foresta aveva un compito preciso: curare i feriti al ritorno dal campo di battaglia, salvare chi poteva sul posto, portare all’Ospedale di Castelnovo Monti o nelle case di cura collaboranti quelli che avevano bisogno di operazioni e di cure più importanti. Alcuni medici avrebbero coperto le tracce, altre infermiere avrebbero aiutato Foresta a riportare i combattenti in montagna: molte persone che oggi abbiamo dimenticato, in silenzio tenevano in piedi la lotta di liberazione. Alcuni senza sparare, ma con le competenze basilari che all’epoca potevano avere nel campo dell’urgenza pre-ospedaliera e nella medicina tattica.

Il Dottor Marconi di Castelnuovo né Monti aveva dato a Foresta una cassettina del “pronto soccorso” dicendole: “Quelli messi peggio li porti da me, quelli messi così così ti arrangi te” e nella cassettina ci mette dentro qualche cerotto e qualche garza.

“C’era da combattere per un’Italia migliore. All’epoca c’era tutta una fraternità, una solidarietà che univa le persone.

Mi son sposata che come dote avevo solo sei lenzuola fatte in casa. Sono andata mondina in Piemonte per fare i soldi per la dote.

Sul Caval Bianco la battaglia. Arrivano i Tedeschi da Ligonchio, arrivano al Caval Bianco. In quel momento, ormai vicini, iniziano a sparare. La formazione si disperde, terrorizzata. Io me ne resto lì con un ferito grave e uno zoppo. Da soli. Mi faccio aiutare per tirarlo in una piccola grotta. Gli tenevo la mano sulla bocca, premuta, perché si lamentava del dolore, disperato, col rischio che i Tedeschi sentissero. Ed io già sentivo le loro voci.

Così penso che sia finita per tutti e tre. Dopo un’ora o due i tedeschi si ritirano e i partigiani ridiscendono. Mio marito, che era vice comandante, va su tutte le furie perché mi avevano lasciata lì da sola.

Non avevo paura. Ne avevamo passate tante. Poi hanno portato il ferito giù per essere curato.

Il nome di battaglia “Foresta” me l’ha messo Don Carlo. “Ti piace questo nome?”. La zona era tutta una foresta. Fui la prima donna ad entrare nella resistenza, avevo 18 anni. Sai quante schegge ho tolto?!

La guerra era appena finita che già pensavo “abbiamo fatto tanti sacrifici ma nelle scuole non ne parlano…” Sono entrata nei partigiani perché ero stanca di ingiustizia. Questa Italia andava liberata e doveva risorgere.

Sono sempre stata rispettata, perché i partigiani erano più che fratelli.

Fate conosce queste cose, affinché non ritorni più.”

Sotto: la cassettina di primo soccorso utilizzata da Laura Quadreri, nome partigiano “Foresta”, durante il periodo della resistenza.

Vogliamo quindi ringraziare Gianluca Foglia per le immagini, per il suo prezioso contributo e per averci fatto scoprire questo piccolo oggetto di forte impatto storico.

Gianluca Foglia

La “cassetta di primo soccorso” che potete vedere sopra è stata un attrezzo di soccorso assolutamente essenziale e per alcuni magari, di vitale importanza. Testimonianza viva di come si curavano ferite da taglio, da arma da fuoco, ustioni e intossicazioni sul campo di battaglia o poco dopo la lotta.

 

 

 

 

Laura Quadreri

 

Un ringraziamento speciale alla memoria di Laura Quadreri e sua sorella Giovanna, combattenti che da staffetta e infermiera hanno salvato molte vite e hanno tramandato questa storia, per testimoniare e risvegliare ogni anno la forza di questi gesti, tanto disperati quanto determinanti.

 

 

 

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